Il portale dell'Universo Sconosciuto: Scienza & Mistero
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10/02/17

Il cranio dell'uro con il presunto foro di proiettile

Chi sparava ai bisonti 40.000 anni fa ?
E’ la domanda che si sono posti alcuni ricercatori russi analizzando i resti di un bisonte preistorico, un uro per la precisione, originario della Yakuzia, una regione della Siberia orientale, dove ha vissuto circa 40.000 anni fa.
Secondo i ricercatori infatti, il cranio del bisonte presenterebbe un foro circolare perfettamente compatibile con un colpo di arma da fuoco.
Il cranio dell'uro è esposto presso il Museo di Paleontologia di Mosca. 
Sul cranio si può notare un foro perfettamente circolare, compatibile con l'impatto di un oggetto lanciato ad alta velocità.


I ricercatori ritengono che, anche se non ne hanno mai trovato i resti, il foro nel cranio sia stato causato da un proiettile di calibro simile a quelli che si usano oggi. 
Inoltre l’animale sarebbe sopravvissuto alla brutta esperienza come testimoniano le tracce di calcificazione intorno al foro.
Questa ultima circostanza escluderebbe la possibilità che il foro sia stato creato accidentalmente oppure ad arte in tempi moderni, o comunque successivi alla morte dell'animale.
Ma, tornando alla domanda iniziale, chi, o cosa, avrebbe potuto sparare ad un bisonte preistorico 40.000 anni fa ?
Extraterrestri in visita sul nostro pianeta ?
Una antichissima e progredita civiltà umana antidiluviana della quale si è persa ogni traccia ?
In realtà la causa potrebbe essere molto più prosaica: altri paleontologi infatti hanno suggerito che il foro sarebbe stato causato da una particolare patologia del tessuto molle che avrebbe intaccato l’osso del cranio, lasciando appunto una ferita circolare di questo tipo.

19/05/16

Il mosaico esposto al Museo delle Terme di Roma

Gli antichi Romani potrebbero aver scoperto l’America quasi 1400 anni prima di Cristoforo Colombo?
E’ quanto si potrebbe clamorosamente dedurre da un mosaico romano esposto al Museo del Palazzo Massimo alle Terme di Roma. Infatti al secondo piano del museo, nella galleria dedicata agli affreschi, mosaici e stucchi del mondo classico, si può osservare un pavimento a mosaico risalente agli inizi del primo secolo dopo Cristo. La peculiarità di questo mosaico è dovuta alla presenza di un cesto di frutta dove partendo da sinistra sono riprodotti nell'ordine: fichi, mele cotogne, uva nera, melograni ed infine un frutto che, secondo le nostre conoscenze, non dovrebbe  essere lì, un ananas.

Un ananas in un mosaico dell'antica Roma?

Infatti l'Ananas comosus, la specie più diffusa, della famiglia delle Bromeliaceae fu visto per la prima volta nel 1493 da Cristoforo Colombo. Pertanto prima della scoperta dell'America la pianta dell'ananas era del tutto sconosciuta in Europa.
Può essere che in qualche modo gli antichi Romani siano approdati in America o che abbiano intrattenuto rapporti commerciali con popolazioni americane?

Il particolare dell'ananas nel cesto

L'ipotesi è senza dubbio molto suggestiva, tuttavia esistono altre spiegazioni, molto più prosaiche.
Infatti una  spiegazione plausibile è che l'ignoto artista autore del mosaico abbia voluto raffigurare una pigna di pino domestico (Pinus pinea), cercando di abbellirla con un ciuffo di foglie lanceolate ed ottenendo così un risultato del tutto singolare e fuorviante.
Un'altra possibilità è che in passato il mosaico sia stato sottoposto ad un restauro integrativo che ha portato all'introduzione di un clamoroso errore storico.
Infine c'è un'altra ipotesi, forse è la più probabile: ancora oggi l'ananas è coltivato in alcune regioni dell'Africa occidentale, pertanto è probabile che i Romani dell'era repubblicana, dopo le guerre puniche, possano essere entrati in contatto col frutto che così sarebbe stato conosciuto nel mondo occidentale anche prima della scoperta dell'America.
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26/03/15

L'enigmatica pila di Bagdad

La pila o batteria di Bagdad, è il nome con il quale è noto un oggetto scoperto probabilmente nel 1936 nel villaggio di Khuyut Rabbou’a, nei pressi di Baghdad, in Iraq . Nel 1938 questo manufatto, esposto nel Museo Nazionale dell’Iraq, attirò l’attenzione del tedesco Wilhelm König ,il quale due anni dopo, nel 1940, affermò che poteva essere una cella galvanica ante litteram, forse utilizzata per placcare gli oggetti in oro e argento. Se questa ipotesi si rivelasse corretta, anticiperebbe l’invenzione della cella elettrochimica di Alessandro Volta di quasi 2000 anni, infatti König faceva risalire il manufatto ad una data tra 250 a.C. ed il 224 d.C., quando quello che è il moderno Iraq era dominato dai Parti.
Ma i Parti hanno davvero inventato la pila? Ci troviamo forse di fronte ad un Oopart?
Iniziamo subito a dire che tutti gli studiosi concordano sul fatto che non si tratti di Oopart, poiché la sua realizzazione non risulta al di fuori delle possibilità tecniche dell’epoca.
Inoltre è giusto sapere che secondo alcuni studiosi, come St. John Simpson, la pila avrebbe una datazione più recente essendo un esempio di ceramica Sasanide ovvero riconducibile tra il 224 e il 640 d.C..

Un'altra foto della pila di Baghdad

Molti esperimenti hanno provato a dimostrare le capacità elettriche di tale artefatto seguendo alcuni passi, come spiega il sito del Cicap.
Non è semplice provare o confutare l’ipotesi che si tratti veramente di una pila. In effetti questo, come qualsiasi altro oggetto composto da due metalli differenti, può funzionare da rudimentale pila se immerso in una soluzione acida. Tuttavia la corrente generata in questo modo è minima. Non è facile ottenere una corrente di intensità ragionevole e far sì che la pila funzioni per più di qualche minuto, quando i due metalli sono rame e ferro, a meno di non usare come elettroliti acidi forti che però erano sconosciuti all’epoca. In una pila la corrente viene generata tramite due reazioni differenti che avvengono vicino ai due elettrodi, tra questi e opportune sostanze (elettroliti) disciolte nel liquido in cui sono immersi. Sono stati proposti vari tipi di elettroliti, basati su sostanze conosciute al tempo della “pila”.  Se si usa acqua acidulata o salata, questa fa solo da conduttore, permettendo le reazioni:

Fe-> Fe2+ + 2 e- O2 + 2 H2O + 4 e- -> 4 OH-

La seconda reazione avviene con l’ossigeno dell’aria disciolto nell’acqua. In questo caso però la forma chiusa della “pila” è una scelta poco felice perché l’ossigeno necessario si scioglie nell’acqua con difficoltà, una reticella metallica posta subito sotto la superfice in una bacinella avrebbe funzionato molto meglio. Essendo l’oggetto trovato da König un cilindro sigillato, avrebbe potuto funzionare solo per pochi minuti. Candidati più promettenti sono invece oggetti simili trovati in Seleucia. W.F.M. Gray ha provato ad utilizzare solfato di rame, e la pila riesce a funzionare bene per un breve tempo, finché l’elettrodo di ferro non viene ricoperto da uno strato di rame. Altri studiosi hanno usato benzochinone, una sostanza che si trova nelle secrezioni di alcuni centopiedi, mescolato con aceto. Tutti questi processi funzionano molto male, in quanto nella pila di Baghdad manca un meccanismo (come un setto poroso, o una gelatina) che separi gli elettroliti che reagiscono con i due elettrodi. Comunque la possibilità, remota, che l’oggetto fosse effettivamente una rudimentale pila esiste, e non è al di fuori delle possibilità tecniche del tempo. È possibile provare a costruirsi in casa una “pila di Baghdad”. Sono sufficienti un pezzo di ferro, un po’ di filo elettrico, un bicchiere di aceto (o di soluzione di solfato di rame), e un tester da hobbista elettronico. Collegare il pezzo di ferro ad un filo, ed immergerlo nella soluzione. Come elettrodo di rame si può utilizzare un secondo filo scoperto per un tratto di qualche centimetro. Si può così verificare che, anche se la tensione prodotta può raggiungere un volt, la corrente è molto ridotta, non più di qualche milliampere.

Oltre a quelli già citati, negli anni sono stati eseguiti anche altri esperimenti sulla stessa falsariga.
Nel 1980, nella serie televisiva “il misterioso mondo di Arthur C. Clarke” , l’egittologo Arne Eggebrecht creò una cella voltaica utilizzando un vaso riempito di succo d’uva, riuscendo a generare mezzo volt di energia elettrica e dimostrando di poter placcare d’argento una statuetta in due ore, utilizzando una soluzione di oro e cianuro. Tuttavia, molti dubbi sono recentemente nati sulla validità di questi esperimenti.
In Discovery Channel nel programma di MythBusters sono state costruite repliche di queste giare per vedere se era davvero possibile utilizzarle per la galvanotecnica; dieci vasi di terracotta sono stati usati come le batterie ed è stato scelto come elettrolita del succo di limone per attivare la reazione elettrochimica tra il rame e il ferro. Collegati in serie, le batterie hanno prodotto 4 volt di energia elettrica. Tuttavia essendoci pervenuta una sola pila, l’ipotesi dell’esistenza di altri oggetti dello stesso tipo da collegare in serie è solo ipotizzabile.

Schema della batteria di Baghdad

La teoria della pila galvanica utilizzata per placcare gli oggetti in oro e argento è senza dubbio molto affascinante, tuttavia negli ultimi tempi non gode di particolare stima, infatti come asserisce Paul Craddock del British Museum: “Gli esempi che vediamo da questa regione e periodo sono doratura convenzionali e doratura a mercurio. Non c’è mai stata alcuna prova a sostegno della teoria galvanica”. Anche la prova citata da König nel suo testo, ovvero che tutt’oggi gli artigiani di Baghdad usino una particolare tecnica di doratura galvanica, è stata confutata in quanto la tecnica usata in Iraq è molto simile a quella utilizzata nel secolo scorso in Inghilterra, paese colonizzatore, ed è comunque molto differente dall’elettrochimica presente nella pila in quanto contiene zinco, molto più ossidabile del ferro e sali di cianuro, sconosciuti in epoca antica.
E’ bene infine chiarire alcuni punti essenziali sul manufatto stesso che fanno propendere più verso l’idea dell’errore interpretativo di König che non sull’esistenza di una antica pila:

  • L’asfalto che copre il “vaso” lo isola a tal punto che bisogna modificare l’artefatto per far si che riescano a “circolare” gli elettroni. Inoltre avrebbe bisogno anche di continua manutenzione per funzionare.
  • L’ archeologo Ken Feder fa notare come il manufatto non possieda fili esterni conduttori ne che possano indicare collegamenti tra i vasi per il loro uso per la galvanoplastica.
  • In molti hanno notato la somiglianza tra il manufatto ed i contenitori usati per trasportare i rotoli sacri dalla vicina Seleucia, presso il Tigri, ma la somiglianza che vi è anche tra i comuni contenitori utilizzati a scopi magici o propiziatori che per altro contenevano dei metalli simbolicamente legati alle varie divinità.
Contenitore utilizzato per trasportare rotoli sacri

Fonte: Mistero Risolto
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06/02/15

 Le misteriose impronte del Paluxy River


L’uomo esisteva già ai tempi dei dinosauri, oltre 65 milioni di anni fa ?
La presenza di impronte umane fossilizzate accanto a quelle di dinosauro nel letto calcareo del fiume Paluxy, vicino a Glen Rose, nel Texas, sembra suggerire questa clamorosa teoria che, se dimostrata, obbligherebbe a riscrivere l’intera storia dell’evoluzione umana inserendosi prepotentemente nel dibattito tra evoluzionisti e creazionisti.
Nel 1908, vicino a Glen Rose, Texas, nel  Paluxy River, una violenta inondazione strappò alcune lastre di calcare dal fondo del fiume e portò alla luce tre impronte di piedi di dinosauro. Queste furono scoperte da tale Ernest Adams, ma nessuno a Glen Rose sembrò realizzare l'effettiva portata di quella scoperta. Negli anni trenta le tracce furono scavate e vendute a vari turisti di passaggio, a causa delle grandi difficoltà economiche che seguirono la grande depressione del 1929.

Altra immagine delle impornte del fiume Paluxy

In qualche modo parecchie di queste impronte finirono in una stazione commerciale a Gallup, New Mexico e furono notate dal paleontologo Roland Bird. Egli concluse immediatamente che le impronte erano state intagliate e quindi erano dei falsi. Era però curioso  di capire come i residenti di Glen Rose avevano avuto l'idea di contraffare impronte di dinosauro, infatti a quei tempi i dinosauri non erano così largamente conosciuti come lo sono adesso.  Decise pertanto di fare una visita al  Paluxy River. Sul posto però individuò molte tracce di "camminamenti" di teropodi e di sauropodi e tale scoperta ebbe grande clamore nella comunità scientifica.

Le presunte impronte umane

Durante il suo viaggio, comunque, non riconobbe  nessuna impronta di essere umano  con l'eccezione di una molto  deforme, ed è per questa ragione  che molte impronte di origine "umana" vendute ai turisti sono ritenute false.
Per quanto riguarda invece le altre presunte impronte umane che risultano effettivamente di origine naturale, esse non sono altro che il frutto di una errata interpretazione e dell’azione degli elementi.
Infatti il maggior numero di “tracce” hanno forme allungate e da ciò si deduce che sono impronte di dinosauro metatarsali cioè realizzati da dinosauri bipedi che a volte hanno impresso la loro metatarsi mentre camminavano. Alcune però probabilmente per un erosione creata da un riflusso di fango o per colpa di una doppia impressione sembrano assomigliare ad impronte umane, anche se un po’ troppo grandi.

Come le impronte dei dinosauri bipedi si sono trasformate in impronte "umane"

Ne segue che le misteriose impronte del Paluxy River sono una combinazione di impronte di dinosauri bipedi modificate dall’erosione e di falsi veri e propri intagliati nel calcare allo scopo di lucrare sui turisti. Infatti negli ultimi anni la tesi delle “tracce dell’uomo che cammina con i dinosauri” è stata abbandonata anche dalla maggior parte degli studiosi creazionisti.

Fonti: Mistero Risolto, Misteromania
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10/12/14

I dischi dei Dropa

I dischi dei Dropa, o dischi di Bayan Kara Ula, sono 716 reperti a forma di disco costituiti principalmente da granito ma con un’alta concentrazione di cobalto ed altri metalli e sulla cui superficie si presentano strane incisioni.
I dischi sarebbero stati scoperti da una spedizione archeologica, guidata dall'archeologo Karyl Robin-Evans, che nel 1947 li avrebbe rinvenuti in una caverna della regione montuosa di Bayan Kara Ula, al confine tra Cina e Tibet, insieme agli scheletri di una misteriosa ed antichissima popolazione che un tempo abitava la zona: i Dropa o Dzopa. Si trattava di esseri umani dalle caratteristiche davvero singolari: il corpo minuto e la testa sproporzionatamente grande.


Robin-Evans entrò in contatto con i discendenti di questa enigmatica tribù che gli spiegarono che i Dzopa erano i superstiti di una razza di esseri extraterrestri la cui astronave si era schiantata in quella zona circa 12.000 anni fa. I simboli incisi sui 716 dischi rappresenterebbero la storia di questi extraterrestri bloccati per sempre nelle montagne del Tibet, non solo: alcuni dischi, una volta esaminati dagli scienziati, avrebbero presentato caratteristiche molto particolari, quali la concentrazione piuttosto alta di cobalto ed altri metalli. Uno scienziato sovietico, il dottor Viatcheslav Saizev, avrebbe dichiarato che, una volta sistemati i dischi su un dispositivo simile ad un grammofono, essi "vibravano" come se una carica elettrica vi fosse passata attraverso oppure come se "essi facessero parte di un circuito elettrico".

Foto di due presunti dischi Bayan Kara Ula come vengono anche chiamati

La storia della spedizione e del misterioso ritrovamento dei dischi è narrata dallo scrittore David Agamon nel libro “Sungods in Exile” pubblicato nel 1978 e che dice di rifarsi direttamente agli appunti di Robin-Evans. Questo libro è l’unica fonte che parla di questa storia e già questo particolare dovrebbe far riflettere su tutta la vicenda.

Altra foto di un disco dei Dropa

La verità emerse infatti nel 1995, quando l’autore britannico David Gamon confessò alla rivista Fortean Times di aver scritto “Sungods in Exile” come burla sotto lo pseudonimo di Agamon, ispirato dalla popolarità di Erich von Daniken e del suo libro sugli antichi astronauti. Gamon riferì che il materiale per la storia era stato ripreso da un articolo di una rivista degli anni ’60, il Russian Digest, e da una novella francese del 1973, “I dischi di Biem-Kara”, scritta da Daniel Piret.
Questa rivelazione non impedì però ad Hartwig Hausdorf  di scrivere il libro “The Chinese Roswell” nel 1998, dove introduceva la figura del professor Tsum Um Nui, della Beijing Academy, che avrebbe tradotto i simboli incisi sui dischi di pietra. Ovviamente il professore non esiste ed inoltre Tsum Um Nui non è un cognome cinese, bensì giapponese e scritto anche in maniera ortograficamente scorretta. Allo stesso modo, i dischi di pietra non esistono:  nessuno dei musei dove secondo i due libri sarebbero conservati i dischi ha mai avuto, nè tantomeno conosciuto, un disco dei Dropa.
Le foto che ritraggono i fantomatici dischi in realtà sono foto di oggetti, questa volta autentici, chiamati Bi. Si tratta di antichi manufatti di giada dell’antica Cina a forma di disco, utilizzati per scopi cerimoniali, i più antichi di essi risalgono al neolitico.

I dischi Bi di giada dell'antica Cina

27/04/13

La mappa del creatore

La mappa del creatore è una lastra di pietra trovata nel 1999 nei pressi del villaggio di Chandar nella regione di Nurimanov che dovrebbe ritrarre l'orografia e l'idrografia della regione della Bashkiria, la notizia della sua scoperta è stata diffusa nel 2002. Secondo gli scopritori la mappa è vecchia circa 120 milioni di anni e rappresenta un autentico mistero.
L'autore della scoperta è il professor Alexander Chuvyrov, dottore e professore di Scienze Fisiche e Matematiche alla Bashkir State University.

Alexander Chuvyrov

Nel 1995 il professore ed il suo assistente Huan Hun avevano deciso di studiare l´ipotesi di una possibile migrazione dell´antica popolazione cinese verso i territori della Siberia e degli Urali. Nel corso della spedizione a Bashkiria avevano trovato svariate rocce incise in antico linguaggio cinese che confermavano l´ipotesi dei migranti cinesi. Le iscrizioni, una volta codificate, si è scoperto che contenevano informazioni riguardo scambi, trattative, matrimoni e registrazioni di morte.
Nel corso delle ricerche inoltre erano state trovate negli archivi del governatore generale di Ufa alcune annotazioni risalenti al XVIII secolo che citavano l'esistenza di circa 200 insolite lastre di pietra, situate non lontano dal villaggio di Chandar, nella regione di Nurimanov.
Chuvyrov ed i suoi colleghi avevano ipotizzato che queste lastre fossero connesse con le migrazioni cinesi. Le note negli archivi riportavano anche che nei secoli XVII e XVIII, spedizioni di scienziati russi che esploravano la regione degli Urali avevano studiato 200 lastre bianche con segni e tracciati, mentre all´inizio del XX secolo l´archeologo A. Schmidt aveva visto alcune di queste lastre bianche in Bashkiria.
Questi ultimi elementi avevano spinto gli scienziati ad intraprendere la ricerca ed infatti nel 1998 Chuvyrov, dopo aver formato un gruppo di lavoro con alcuni suoi studenti,  organizzava una spedizione nella zona che però inizialmente non portava ad alcun risultato.
Proprio mentre Chuvyrov stava per abbandonare le ricerche pensando che le lastre fossero solo una leggenda, durante uno dei suoi viaggi a Chandar fu contattato dall´ex direttore del locale Consiglio di Agricoltura, Vladimir Krainov, che, sapendo della ricerca delle lastre di pietra, voleva mostrargli una strana lastra nel suo cortile.
Per inciso, il padre di Krainov aveva ospitato l´archeologo Schmidt per un breve soggiorno.
Riferisce Chuvyrov: "Inizialmente, non presi seriamente questa notizia, ciononostante, decisi di recarmi a vedere. Ricordo il giorno esatto: 21 Luglio 1999. Sotto il cortile della casa, giaceva una lastra con alcune incisioni. Era così pesante che noi due insieme non potemmo sollevarla. Così mi sono recato alla città di Ufa per chiedere aiuto".
Dopo aver dissotterrato la lastra, i ricercatori furono impressionati dalla sua taglia: 148 cm in altezza, 106 di ampiezza e 16 di profondità. Il peso si aggirava intorno ad una tonnellata. Il padrone di casa creò degli speciali rulli di legno grazie ai quali la lastra fu fatta scivolare fuori dal suo fosso. Il ritrovamento fu battezzato "Pietra di Dashka" (in onore della nipotina di Chuvyrov, nata il giorno prima) e la lastra fu trasportata all´Università per ulteriori esami. Dopo che fu ripulita dalla terra, gli scienziati non riuscirono a credere ai loro occhi, dice ancora Chuvyrov: "A prima vista ho capito che non era un semplice pezzo di pietra, ma una vera mappa, e non una semplice mappa, ma a tre dimensioni. Potete vedere voi stessi."
Chuvyrov sostiene che la lastra sia una mappa in rilievo, in scala 1:1,1 km della regione degli Urali, infatti egli sostiene di aver identificato le alture ed il canyon di Ufa ed inoltre i fiumi Belya, Ufimka e Sutolka.
Sempre secondo le sue affermazioni: "Sulla mappa, può essere individuato un gigantesco sistema di irrigazione: in aggiunta ai fiumi, vi sono due sistemi di canali ampi 500 metri, e 12 dighe. Le dighe probabilmente aiutavano a riversare l´acqua su ogni lato, mentre per crearli è stato stimato sia stato mosso più di 1 quadrilione di metri cubi di terra. In confronto con questo sistema di irrigazione, il canale del Volga-Don sembra come un graffio sui rilievi di oggi.
Non lontano dai canali, si notano zone sul terreno a forma di diamante la cui destinazione è sconosciuta. La mappa contiene anche alcune iscrizioni realizzate in un linguaggio geroglifico sillabico di origine sconosciuta che gli scienziati non sono in grado di tradurre."
La struttura della lastra consiste di tre livelli: il primo spesso 14 cm costituito da solidissima dolomite, il secondo costituito da vetro di diopside, la mappa è stata tracciata su questo livello, il terzo livello è spesso 2 mm ed è composto da porcellana di calcio che protegge la mappa da eventuali agenti esterni.
Per quanto riguarda la datazione della lastra sentiamo ancora Chuvyrov: "E´ difficile determinare perfino approssimativamente un´età della lastra... [omissis] ...le investigazioni hanno condotto a risultati differenti e l´età della lastra rimane incerta. Mentre esaminavano la pietra, sono state trovate due conchiglie sulla sua superficie. L´età di una di esse, Navicopsina Munitus della famiglia delle Gyrodeidae, è circa 500 milioni di anni, mentre la seconda, Ecculiomphalus Princeps della sottofamiglia delle Ecculiomphalinae, è di circa 120 milioni di anni. Queste stime sono state accettate come provvisorie. Questa mappa è stata probabilmente creata in un tempo in cui il polo magnetico della terra era situato nell´area in cui si trova attualmente la terra di Francesco Giuseppe, dove esso si trovava esattamente 120 milioni di anni fa... [omissis] ...inizialmente pensavamo che la pietra avesse circa 3000 anni. Da quel momento l´età è andata continuamente aumentando, fino a quando abbiamo identificato le conchiglie incastrate nella pietra."
Sembra infine che la lastra sia stata esaminata anche negli USA, precisamente nel centro di Cartografia Storica in Wisconsin. Secondo gli scienziati americani una mappa tridimensionale di questo tipo potrebbe avere come scopo la navigazione e sarebbe stata realizzata esclusivamente tramite osservazioni aeree.
Ricordiamo infine che la mappa deve il suo nome al fatto che Chuvyrov definisce l´autore della mappa  "il creatore".
Riassumendo, secondo quanto riportato stiamo parlando di una mappa tridimensionale che raffigura una regione degli Urali così come era 120 milioni di anni e che sarebbe stata realizzata con tecniche avanzatissime e sconosciute.

Facciamo ora alcune osservazioni.

Anzitutto non si capisce il motivo per cui un professore universitario di fisica e matematica si dedichi a studiare le migrazioni cinesi nelle zone degli Urali, non dovrebbe essere compito di un antropologo o di un archeologo ?

Esaminando le foto della lastra si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una lastra piena di crepe, credo che ci voglia davvero una grande dose di fantasia per vederci una mappa che raffiguri anche solamente corsi d'acqua; in ogni caso ho provato anche a visualizzare con google maps la zona di Ufa, e le somiglianze con i rilievi della lastra mi sembrano veramente molto forzate.

Particolare della mappa del creatore
Mappa della zona di Ufa estrapolata da Google Maps

Si potrebbe obiettare che la mappa raffigura la zona così com'era 120 milioni di anni fa, tuttavia mi chiedo come abbiano fatto gli scienziati del gruppo di Chuvyrov a ricostruire la morfologia della zona di un passato così remoto in modo tanto dettagliato da poterla confrontare con le "incisioni" della mappa.
In nessuna foto si riescono a vedere in modo chiaro i geroglifici di origine sconosciuta, che credo sarebbero invece molto importanti da mostrare nell'ambito di una scoperta di questo tipo.

Vengono menzionati due fossili: Navicopsina Munitus ed Ecculiomphalus Princeps ho provato a ricercarli sul portale The Paleobiology Database per controllare se esistono realmente: il primo non esiste in quel database, mentre il secondo esiste realmente.
Non sono riuscito a trovare alcun riferimento in merito all'archeologo A. Schmidt.

Non è raro trovare in natura rocce composte da dolomite, diopside e porcellana. Visitando questo indirizzo vediamo che questa combinazione è possibile trovarla nelle dolomie ad alto contenuto di silice, pertanto la struttura a tre strati non è così inusuale come si vuole far credere e, soprattutto, non ha nulla di artificiale.
Sembra che non esista alcun centro di Cartografia Storica in Wisconsin, in realtà esiste il "The History of Cartography Project" che però ha tutt'altra funzione: si occupa infatti della storia della cartografia raccogliendo, commentando e pubblicando mappe provenienti da ogni luogo e da ogni epoca ed in ogni caso non si tratta di un centro ma di un'enciclopedia!
Come si può vedere in questa storia si presentano tante imprecisioni ed incongruenze oltre al fatto oggettivo che la lastra non sembra affatto essere una mappa ma semplicemente una vecchia lastra piena di crepe.
Ricordiamo infine che la notizia è stata diffusa dai media russi il 1° aprile 2002, il che fa pensare ad una burla peraltro ben riuscita visto il clamore che ha suscitato.
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